Riflessione sull’attuale crisi economica e politica.

Probabilmente la parola più pronunciata, più scritta e più letta in questo scorcio d’anno è “crisi” nelle sue diverse declinazioni di “crisi economica”, “crisi dei valori”, “crisi della politica” e così via. È, quindi, inevitabile dedicare un po’ di tempo all’argomento e provare a sviluppare qualche spunto di riflessione sul tema che possa costituire l’occasione di maggiori approfondimenti e di preziosi propositi.

La prima cosa che colpisce è come questo concetto sia, nel linguaggio quotidiano, oramai pressoché inevitabilmente, declinato in termini negativi, cioè utilizzato per qualificare in senso sfavorevole degli eventi o delle situazioni cui è associato o per evocare fatti spiacevoli e non auspicabili.

Al contrario, non solo l’etimologia della parola è ben diversa, riportando al momento di separazione che s’interpone fra situazioni e modi d’essere differenti senza assumere alcuna specifica connotazione [1], ma, autorevolmente, il concetto è stato associato a nozioni di carattere positivo, evidenziando l’apertura verso il futuro insita nel cambiamento che si associa ad ogni “crisi” [2].

In termini stretti, quindi, una “crisi” può essere un semplice – ancorché gravissimo negli effetti economici e sociali – momento negativo di una serie storica che prosegue con sostanziale continuità ovvero un evento di separazione fra fasi sociali, politiche o economiche della società umana, che sono destinate a risultare, storicamente, radicalmente differenti le une dalle altre. Il duplice significato che può essere attribuito al termine “crisi” rimanda, quindi, alla possibile diversa interpretazione del fenomeno storico che stiamo vivendo e, di conseguenza, al differente comportamento che possiamo (e dobbiamo) adottare per reagire alle sue negatività.

È, quindi, obbligatorio porsi la domanda se la “crisi” odierna costituisca – sia a livello economico, che nella struttura della nostra organizzazione sociale e politica – una semplice fase negativa del processo di sviluppo della nostra società iniziato con il cd. “Secolo breve” [3] ovvero se, al contrario, rappresenti un momento di discontinuità, destinato a segnare il passaggio fra epoche e sistemi sociali, politici ed economici radicalmente differenti. La risposta a questo interrogativo non può certo essere l’obiettivo di queste brevi e poco qualificate considerazioni, ma sicuramente la sua postulazione ci permette di accedere all’idea che tanto le analisi, come le “ricette” di guarigione che provengono da molti dei nostri Opinion leaders possano essere valutate e giudicate in termini più critici e non necessariamente adesivi.

Più chiaramente, vale la pena di chiederci – partendo dalla considerazione della possibile duplicità significato delle “crisi” in genere e dal conseguente eventuale differente valore storico di quella in atto – se questo evento possa essere letto in termini di continuità con il periodo che l’ha preceduto. Nel qual caso sarebbe corretto pensare che questa situazione possa ragionevolmente essere superata con soluzioni che fanno riferimento al patrimonio delle nostre esperienze passate.
È evidente, al contrario, che, nel caso in cui la nostra “crisi politica” o la nostra “crisi economica” abbiano un significato differente e cioè siano sintomi di frattura e discontinuità, occorrerà far ricorso a energie ed esperienze differenti da quelle note e già utilizzate.

In questa seconda ipotesi, occorreranno risposte in termini d’innovazione e di cambiamento, cioè, per ritornare alla citazione di poco sopra, saranno necessarie “… l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie …” perché “… chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato …”, mentre “… chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni …”  [4].

Se si fa caso ai vari interventi che, in questi mesi si sono succeduti sul tema degli “antidoti” alla “crisi economica”, è possibile, invece, cogliere come la gamma delle proposte – siano essere di matrice imprenditoriale, bancaria, politica o sindacale – si muovano tutte nel solco della sostanziale continuità con il passato.

È evidente come, per tutti, la ricetta consista nella riattivazione della (e nel sostegno alla) “crescita” cui si pensa di accedere, secondo i diversi punti di vista: a) per mezzo di politiche d’investimento e di riduzione dei costi della produzione; b) mediante il rafforzamento del potere di acquisto di salari e pensioni e, quindi, nel consolidamento della protezione offerta dal “welfare state”; c) con l’adozione di più rigorose politiche e più sofisticati strumenti di controllo e gestione dei debiti sovrani e dai mercati finanziari.

In sostanza, il richiamo corre alla gamma degli strumenti che sono stati, in seguito alla crisi del 1929 [5], ripetutamente utilizzati nel sistema ad economia di mercato per fronteggiare le situazioni di crisi ciclica che si sono verificate per effetto dell’incapacità della domanda a sostenere costantemente la progressiva crescita della produzione e con essa del benessere [6].

Analogamente, sul piano della “crisi politica” originatasi in concomitanza con la probabile fine del ciclo di governo di centro-destra apertosi nel 1994, le “ricette” proposte per risolvere la situazione rimangono confinate nel solco della ricomposizione dei fattori del dibattito politico oggi esistenti.

Le proposte e i temi del dibattito sono, infatti, del tutto tradizionali, basandosi su tentativi di ridefinire l’equilibrio dei rapporti di forza fra i soggetti politici già presenti sul palcoscenico (al più implementati da apporti provenienti dalla società civile) o di operare la trasposizione sul piano politico di figure o nuclei di aggregazione del consenso di matrice civile già appartenenti al panorama dei rapporti politici e sociali e, pertanto, affatto innovativi (gruppi e figure del mondo della grande impresa, ecc.).

Il dibattito si snoda, infatti, fra la richiesta di nuove elezioni, l’auspicio della costituzione di nuove alleanze di governo, le richieste d’insediamento di governi tecnici o di grande coalizione presieduti da personalità autorevoli, l’attenzione per l’entrata in politica di imprenditori o manager già presenti, seppur con altro ruolo, sempre di rilievo, sul palcoscenico dei rapporti politico-sociali. Anche sotto quest’angolo visuale, quindi, l’impressione è che il confronto si svolga – in parte impoverito da forme di dialogo di scarso profilo – nei limiti del consueto quadro di riferimento offerto dalle forme di aggregazione politica esistenti (partiti o movimenti), dalle già operanti strutture di collegamento fra società civile e ambiente politico (lobbies e categorie) e dei modelli ideali di riferimento tradizionali (sinistra-destra), se non addirittura retaggio del superato periodo della contrapposizione est-ovest scaturito dagli accordi di Yalta e dalla guerra fredda. [7]

Se la perplessità che costituisce l’esito dalle precedenti considerazioni è effettiva e reale, se, cioè, da queste ultime è scaturito il dubbio che non tutti parlino (e intendano affrontare) lo stesso tipo di “crisi”, bisogna accettare l’idea che la soluzione alle situazioni di disagio politico ed economico che stiamo vivendo possa (e debba) presentare forti caratteri di discontinuità rispetto allo status quo.

Occorre, in sostanza, essere disposti ad accettare l’idea che l’odierna crisi sia –  come ci ricordano spesso – veramente “globale”, “sistemica” e “strutturale” e, quindi, non possa essere affrontata come un mero evento negativo di carattere ciclico, che si ripete con periodicità, ma che può essere superata solo con azioni nuove che non appartengono al modello da cui si origina. Se cioè la “crisi economica” non segna la semplice sospensione del processo di accrescimento del benessere collettivo, ma rappresenta un elemento di discontinuità rispetto a quest’ultimo, occorre accettare l’idea che l’uscita da questa condizione richieda azioni differenti da quelle che sono state adottate fino ad oggi per alimentare la “ripresa” del ciclo e la sua “crescita”.

Ci si deve chiedere, in concreto, se le azioni di sostegno della domanda fondate su politiche di sussidio o le iniziative di supporto alle imprese mediante investimenti e agevolazioni o, ancora, l’adozione di strumenti d’irrigidimento della pressione fiscale o di bilanciamento e controllo dei mercati non siano semplici palliativi, necessari, ma non risolutivi.

Se, altresì, la “crisi politica” non sia frutto della mera perdita della capacità di rappresentazione della società di una parte della classe dirigente in carica, ma scaturisca dalla modificazione dei rapporti fra politica e società e, quindi, se non si debba accettare la possibilità che la “ricetta” per la guarigione dalla malattia non risieda nella mera successione al vertice di governo di altre figure o di altre compagini ancora legate al vecchio assetto di questi rapporti.

Occorre domandarsi, in sostanza, se l’avvento di nuove alleanze politiche, la costituzione di governi tecnici o, peggio, la riproposizione in chiave politica dei rappresentanti delle lobbies economiche già vicine o contermini con l’uno o l’altro schieramento di partito, non comportino solo la riproposizione, in altra chiave, dello stesso guasto che scaturisce dall’alterazione sostanziale dei rapporti fra politica e società.

Questi interrogativi appaiono tanto più rilevanti e ineludibili quanti sono i “sintomi di discontinuità” di carattere economico, politico e sociale che emergono, non solo nelle analisi di approfondimento di profilo specialistico, ma, sempre maggiore frequenza, anche nella percezione comune.

Si pensi, a titolo solo esemplificativo, (a) all’imporsi della questione ambientale e al tema dei limiti allo sviluppo e della sostenibilità della crescita ovvero (b) alle strutturali modificazioni dei rapporti sociali ed economici conseguenti alla diffusione delle nano-tecnologie, delle applicazioni informatiche o delle conoscenze genetiche, nonché – non in ultimo – (c) agli effetti della globalizzazione dei mercati, della circolazione delle informazioni e delle direttrici di sviluppo della cultura.

Si pensi, ancora, in prospettiva più schiacciata sul presente e già percepibile nella fase finale e più critica del “Secolo Breve”, (d) ai fenomeni di disintegrazione dei vecchi modelli di relazioni umane e sociali, ivi compresi quelli di frattura fra le generazioni, (e) ai processi di affievolimento del ruolo degli stati nazionali e del loro potere di controllo dei fenomeni economici, (f) allo spostamento del baricentro mondiale delle attività produttive fuori dal territorio dai paesi cd. industrializzati e, infine, (g) alla perdita dei riferimenti costituiti dalle grandi ideologie del ‘900 e alla carenza di valori sostitutivi.

Evidentemente non è questa la sede né per rispondere al quesito che è emerso dalle precedenti brevi considerazioni, né per proporre possibili ricette di uscita dalle “Crisi” in corso che soddisfino quei requisiti di novità, rinnovamento ed evoluzione richiesti dall’ingresso nella nuova epoca che questi fenomeni potrebbero presagire.

È certo, però, che di fronte alle sollecitazioni tradizionali che provengo da talune forze politiche e da alcune lobbies economiche e culturali occorrerà assumere comportamenti più vigili e, soprattutto, molto più disincantati, essendo concreto il rischio che – ad esito delle loro “ricette” – ci si possa trovare nella stessa situazione di “crisi” da cui avremmo dovuto uscire.

È certo, infine, che l’onere di rispondere al quesito che ci pongono le “Crisi” e la necessità di ideare l’occorrente “Exit strategy” richiedono una classe dirigente realmente nuova che, come tale, smetta di indulgere nella spasmodica ricerca del consenso ad ogni costo e che – avendone la competenza e la capacità etica – sappia assumere il peso della responsabilità politica di scelte d’innovazione strutturale della società.

Una classe dirigente che – senza legami con il passato e senza remore per il futuro – abbia le qualità e il coraggio di condurre le nostre società in una nuova era e verso moderni e avvincenti obiettivi. Perché “… la vera crisi è la crisi dell’incompetenza …” e “… l’unica crisi che ci minaccia è la tragedia di non voler lottare per superarla …” [8].

 

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[1] Il termine deriva da latino “crisis” e dal greco “krisis” e di qui da “krinò”, che significa, “separo”. Etimologicamente, quindi, il concetto riporta al momento che separa una maniera di essere da un’altra o una serie di fenomeni da un’altra differente, evocando la nozione di cambiamento senza qualificarla in senso valoriale.
[2] E’ noto il breve pensiero sul concetto di “crisi” e sul modo di superarla attribuito ad Albert EINSTEIN nel contesto di un dialogo del 1955 con Johanna Pachovane: “… Non pretendiamo che le cose cambino, se facciamo sempre la stessa cosa.
La crisi è la migliore benedizione che può arrivare a persone e Paesi, perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dalle difficoltà nello stesso modo che il giorno nasce dalla notte oscura.
 È dalla crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.
Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza.
La convenienza delle persone e dei Paesi è di trovare soluzioni e vie d’uscita.
Senza crisi non ci sono sfide, e senza sfida la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non ci sono meriti. È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno, poiché senza crisi ogni vento è una carezza.
Parlare della crisi significa promuoverla e non nominarla vuol dire esaltare il conformismo.
Invece di ciò dobbiamo lavorare duro.
Terminiamo definitivamente con l’unica crisi che ci minaccia, cioè la tragedia di non voler lottare per superarla …”.
[3] Il richiamo è alla famosa definizione contenuta nell’analisi storica del ‘900 operata nel volume di Eric J. HOBSBAWN, Il secolo breve – 1914/1991, Milano, 1997, ove si analizza in chiave di sintesi l’intero periodo che abbraccia gli anni dal 1914 al 1991 considerandoli come un’epoca storica organica ed omogenea che si è aperta e chiusa nell’arco del XX Secolo.
[4] Pensiero attribuito ad Albert EINSTEIN cit., 1955.
[5] È noto che la crisi del 1929 ha rappresentato il primo caso nella storia del capitalismo liberale in cui le fluttuazioni del sistema economico si presentarono con tale intensità e gravità da porre in dubbio la stessa sopravvivenza del sistema ad economia di mercato..
[6] Contrariamente a quanto spesso si pensa, infatti, anche gli strumenti del cd. Welfare State nascono – secondo la dottrina del loro ideatore John Maynard KEYNES – al fine di sostenere la ripresa della domanda di beni e servizi e, quindi, di ripristinare e mantenere nel tempo la crescita del prodotto. Non casualmente lo sviluppo di queste impostazioni porta ad evidenziare – vedi ad esempio, Edmund S. PHELPS, Premiare il lavoro, Bari, 2006, la minor efficienza a sviluppare la domanda che avrebbero le politiche di sussidio rispetto ad azioni mirate ad incrementare il reddito delle fasce occupate.
[7] Interessanti sono le considerazioni presenti in Ernesto GALLI DELLA LOGGIA, Tre giorni nella storia d’Italia, Bologna, 2010, sugli elementi di continuità che connotano alcune delle esperienze politiche, diversissime e nate da strutturali discontinuità, che si sono succedute nel nostro paese nell’arco dell’ultimo secolo.
[8] Pensiero attribuito ad Albert EINSTEIN cit., 1955.