Merita, a mio avviso, di essere approfondito il recente dibattito sulla necessità di dotare il Paese di un governo tecnico per superare la situazione d’impasse che caratterizza l’orizzonte politico e per fronteggiare adeguatamente la crisi finanziaria in atto e l’aggressione in corso sui mercati finanziari.

La questione, infatti, non è soltanto d’attualità, ma permette spunti d’interesse che vanno oltre la contingenza di queste pesanti (dal punto della finanza e non) settimane estive e abbraccia il tema della crisi della “politica” nel nostro paese sia a livello nazionale, che locale.

La rivendicazione del ruolo della “politica”, rispetto a quello dei mercati e dell’economia (e delle lobby finanziarie), ma anche a quello della “tecnica”, non costituisce una novità, né è patrimonio di questo o quello schieramento. Basti pensare alla riaffermazione del primato della politica riproposta recentemente sia da autorevoli rappresentanti dello schieramento di centro-destra (penso alla posizione espressa gironi fa da Angelino Alfano [1]), che da illustri riferimenti del pensiero della sinistra illuminata (mi riferisco alle idee spesso esposte da Massimo Cacciari [2]).

D’altro canto, è noto il grido di allarme che molti pensatori moderni hanno lanciato – sul finire del ‘900 – di fronte ai rischi che si annidano nell’elevazione della “tecnica” (o meglio di Téchne) a criterio ordinatore delle scelte che presiedono al perseguimento del Bene comune [3].

L’incontestabilità del primato della “politica” – che è presupposto dell’esistenza stessa della democrazia, implicando l’attribuzione ai rappresentanti eletti del compito di perseguire al meglio il bene comune – pone, quindi, la questione su un altro piano. Quello della comprensione delle ragioni di questa sua decadenza.

Due esempi, fra tanti, rendono evidente la radice del problema.

Il primo è offerto dall’analisi dei modi con i quali vengono, invariabilmente, introdotte le principali azioni di governo per la correzione degli squilibri finanziari, economici o strutturali del paese o delle comunità locali (regioni, province, comuni).
Nessuna di queste misure è adottata preventivamente, ad esito di un chiaro dibattito e di univoche prese di posizione, e sempre senza provvedimenti organici e d’ampio respiro. L’iniziativa è, infatti, portata a compimento solo in limite, cioè nel momento in cui l’urgenza e l’emergenza rendono indispensabile correggere le patologie in atto. Spesso ciò avviene dopo periodi di furiose, quanto poco comprensibili, polemiche di schieramento e, soprattutto, sottoponendo alla cittadinanza solo semplici giudizi di valore. Infatti, raramente o, più esattamente, mai, queste prese di posizione sono corredate dall’esposizione di elementi di dettaglio o di approfondimento che consentano di comprendere le ragioni di una scelta e le opportunità o i rischi in gioco. La memoria corre alle vicende delle ormai periodiche azioni di “correzione” dei conti pubblici o alle iniziative assunte per “affrontare”, episodicamente, alcuni temi ad alta sensibilità sociale (rifiuti, energia, ecc.). Vicende, tutte, nelle quali sembra emergere una strutturale debolezza della “politica”, che riesce a intervenire sul tema non nel momento in cui sarebbe opportuno prevenire e nel quadro di un disegno organico, ma solo ad esito di situazioni di necessità che, per così, dire rendono ineluttabile l’adozione di misure ad elevata capacità di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Quanto al secondo esempio, si afferma, da più parti, che nel nostro Paese esiste il problema del ruolo che intercorre fra la politica e la magistratura. Ammesso (in via di sola ipotesi) che ciò sia vero, è evidente che questo “problema” riguarda solo il ruolo e la forza della “politica”.

Se è vero, infatti, che i magistrati sono soggetti alla legge (art. 101 Cost.), posto che le leggi sono lo strumento elettivo di esercizio del potere politico, è evidente che la questione esiste solo in quanto la “politica” non abbia la forza e la capacità di risolverla. Il tema del ruolo e della crisi della “politica” ci riporta, quindi, alla ricerca delle ragioni per le quali, oggi, quest’ultima ha perso forza e autorevolezza e alla comprensione di come questa situazione possa essere superata. Più chiaramente, non è in discussione la necessità di imporre alla “politica” di fare un passo indietro per riservare la gestione di problemi a elevata complessità alla “tecnica”, ma più correttamente si deve cercare di comprendere perché la “politica” stessa abbia perso la capacità (o abbia smesso) di esercitare il suo ruolo. Anche questo passaggio è semplice.

La “politica” è forte, in primo luogo, quanto è caratterizzata da un’intensa “etica della responsabilità” e, quindi, quando chi fa politica, è univocamente orientato sul progetto di bene comune che sviluppa e non sul successo della propria persona o del proprio partito. Quando cioè, l’azione antepone l’interesse pubblico a ogni altro fine e, quindi, sa accettare che il costo che la chiarezza delle proprie idee e delle proprie proposte (ad esempio, se impopolari ma necessarie) può comportare in termini di consenso immediato.

La “politica” è forte, poi, quando a ogni idea è permesso di confrontarsi con le altre in sistema che garantisce l’alternanza e, soprattutto, la propone in termini di corretta coerenza con il confronto delle idee che è presente sul campo. In queste condizioni, infatti, l’etica della responsabilità politica svolge la sua funzione, mentre laddove questo confronto è risolto in termini apparenti, non c’è la possibilità di veder crescere una politica forte perché questa si alimenta propria di questo confronto e del controllo democratico sul medesimo.

In sostanza, la “politica” è forte quando esprime delle classi dirigenti appassionate, coese, ricche di valori etici e di competenze, dotate di capacità professionali e tecniche e quando queste possono confrontarsi in termini reali sulle idee che propongono, accettando i rischi, la fatica, gli oneri e le opzioni di successo ed insuccesso che ne conseguono.

Altrettanto chiaro è il motivo perché l’attuale “politica” è debole e, quindi, di cosa ha bisogno per riappropriarsi del suo ruolo naturale.
La politica in Italia è debole perché non esprime una classe dirigente forte, coesa e determinata, costituita da persone competenti sul piano economico, giuridico, istituzionale e sociale e pragmaticamente determinate alla realizzazione del bene comune.

La politica in Italia è debole perché è incapace di scegliere i migliori, teme la nascita nel suo seno di nuove classi dirigenti organizzate, ha paura di esporre le proprie idee o di proporre i sacrifici che a queste si associano, dedica attenzione eccessiva agli interessi individuali, a quelli di partito e al consenso quotidiano.

Concludendo queste brevi considerazioni, possiamo, quindi, dire che il dibattito sulla necessità di ricorrere a forme di governo tecnico è fuorviante, perché il tema in gioco non è quello della ricerca di altro, ma quello del recupero della “politica” al suo necessario patrimonio di competenza tecnica, di valore etico e di attenzione per il proprio scopo (il bene comune).

[1] Mi riferisco all’intervento del Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in occasione del dibattito parlamentare successivo all’intervento del 4 agosto 2011 alle Camere del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sulla crisi economica e dei mercati finanziari, intervento in occasione del quale ha affermato che “… i governi non li scelgono i mercati … siamo stati eletti e governiamo …”.
[2]  La citazione è all’intervista di Massimo Gregoretti a Massimo Cacciari che è stata pubblicata nel numero di febbraio 2011 dalla rivista Class sotto il titolo “Metteteci passione ed efficienza”.
[3] Il richiamo è al famoso saggio di Emanuele Severino, TECHNE, Le radici della violenza, Milano, 1979, ma lo stesso pensiero cattolico pone l’accento sempre più spesso sul rischio insito nella liberazione della “tecnica” dalla cornice dei valori morali che costituiscono i riferimenti fondanti della nostra società.